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giovedì 17 settembre 2009

Afghanistan, una guerra infinita


Era stata chiamata Guerra Infinita, poi diventò Enduring Freedom. Sono passati otto anni e i caduti in Afghanistan hanno superato quelli in Iraq, dove la guerra, cominciata nel 2004 e conclusasi praticamente nel 2008 con un paese da ricostruire, ha toccato punte di violenza inaudite da entrambe le parti. Attacchi suicidi a raffica che nella loro brutalità pareggiano l'uso di fosforo bianco su un'intera città, Fallujah, diventata un macabro cimitero. L'Afghanistan ha un reddito pro capite di circa 110 dollari al mese ma è la capitale mondiale dell'oppio, da cui viene estratta il 97% della cocaina presente nei mercati internazionali. Una fonte di guadagno che di fatto riesce a tenere in vita gran parte dello strato più povero del paese, che preferisce coltivare oppio piuttosto che altre colture, di per sé difficili da innestare nel territorio brullo e montuoso
afghanistan
dell'Afghanistan. Un territorio che per la sua conformazione si rivela un autentico inferno dal punto di vista tattico: certi monti superano i 4000m, gli anfratti naturali abbondano sia tra le spaccature montuose che verso valle. I piccoli bunker permettono ai talebani di spostarsi velocemente grazie a vecchie motociclette (incredibile la storia del mullah Omar) che gli permettono di sfuggire ai pesanti carri armati e sfuggire agli elicotteri d'assalto tra gli anfratti montuosi. Con un tasso di disoccupazione pari al 40% del totale della popolazione attiva e circa 7 milioni di persone che potrebbero essere addestrati al combattimento su un totale di 33 milioni di abitanti. Una forza militare ben addestrata e soprattutto determinata a scacciare le forze alleate. Il fattore psicologico gioca a vantaggio dei talebani, altamente motivati e conoscitori del territorio, oltre che ben equipaggiati dai traffici d'armi con i fondamentalisti pakistani. La quantità di oppio esportato garantisce la liquidità con cui i talebani possono rifornirsi d'armi, mentre la storia consegna ai guerriglieri talebani la sicurezza di aver sempre scacciato qualsiasi truppa di invasione: dagli inglesi nel 1919, anno dell'indipendenza dell'Afghanistan, sia per l'invasione sovietica che fu respinta grazie all'addestramento dei marine statunitensi che offrirono l'appoggio logistico alle truppe guidate ai tempi dal giovane Osama Bin Laden. Senza la possibilità di stroncare i campi di oppio della regione (un terzo dell'intero PIL dipende da questo tipo di colture) senza mettersi contro un'intera popolazione che a stento sta cercando un minimo di coesione sociale e politica, la guerra è destinata a continuare almeno per vent'anni. Una exit strategy al momento è impossibile. L'anno scorso l'Afghanistan era sotto il controllo delle forze alleate, se esclusa la parte meridionale a contatto con il Pakistan. Poche e frammentate notizie si accostavano alle bare che arrivavano più copiose negli stati coinvolti nell'offensiva dello scorso inverno. Da allora il bavaglio messo ai giornalisti al seguito delle truppe impegnate in Afghanistan ci ha catapultati in un paese che mantiene come roccaforte la regione intorno alla capitale Kabul, mentre della frontiera ovest dell'Iran si suppone un travaso di armi e uomini motivati ad affrontare le truppe NATO. Una situazione molto simile a quella che costò la ritirata in Vietnam, ma con una fondamentale differenza: lasciare l'Afghanistan ora significherebbe consegnare al mondo uno stato povero e moralmente demotivato a sedersi accanto alle potenze mondiali per un dialogo di pace. Una volta scelta la strada della guerra senza quartiere nel 2001, senza avviare prima dei serrati contatti diplomatici anche con gli stessi talebani per arginare la situazione, la guerra deve essere vinta. Ad ora nessuna forza militare può impedire ai talebani di impadronirsi di un ordigno nucleare che potrebbe passare
direttamente nelle mani di Al Qaeda. Se è vero che per costruire una bomba nucleare occorre disporre di una quantità di uranio ben specifica e della tecnologia adeguata, nulla vieta ad un gruppo di terroristi ben organizzati di usare una bomba con piccole quantità di uranio in qualsiasi città del mondo occidentale. Più il livello dello scontro si alza più aumenta il rischio di attacchi terroristici e di contro non è più possibile escludere colpi di coda dei talebani nel momento in cui un'offensiva terrestre vincente riuscisse a stanarli interrompendo i rifornimenti da ovest e da sud. L'unica carta che rimane da giocare è distruggere le coltivazioni di oppio con cui i talebani finanziano la resistenza. Senza un colpo di questo tipo alle loro semplici ma corpose strutture economiche la guerra in Afghanistan potrebbe durare ancora per decenni.

La Macchia 1986
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1 commento:

Anonimo ha detto...

Finchè si considereranno i Talebani come automi venuti dal nulla con lo stesso criterio con cui la Chiesa considera i diavoli e gli angeli non si potrà giungere ad alcuna soluzione.
Non esiste al mondo l'automa senza anima nato solo per fare del male!
Il talebano è parte della popolazione afgana(e non solo afgana)generata da ''mamma e papà'',con un suo credo ideologico e in consistente numero.Con amicizie,parentele e altro.
Per eliminarli si dovrebbe distruggere con una distruzione mirata(impossibile!)gran parte della popolazione(forse il 90%),perchè è da questa che ha origine il talebano.
Stiamo combattendo una guerra americana con criteri americani!
La soluzione avverrà,e già se ne è parlato,quando potrà esserci un incontro dialettico tra le parti,con reciproche concessioni.Anche di facciata.
Ma Obama non criticava Bush?

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